Le cose hanno preso una piega
inaspettata. Entrata in una scuola del luogo domandando lezioni di
arabo, ne sono uscita con una proposta di lavoro come insegnante di
inglese. Ero frastornata. Sono cresciuta e continuo a barcamenarmi
nell'Europa delle infinite ere da stagista. Il mio senso di
gratitudine si accende naturalmente anche solo nell'eventualità che
qualcuno mi risponda dicendo che no, al momento non ci sono progetti
di internship in programma. Che gentili a personalizzare la mail col
mio nome! Mi sforzo affinché le parole mi plasmino, cerco di
raccontarmi come nelle aspettative dell'annuncio, invio lettere di
motivazione e referenze piene di ossequi pregando che mi venga
offerto un full- time a costo zero. Quando otterrò il mio primo
impiego con rimborso spese a 500 euro proverò probabilmente ad
insistere per farmi abbassare la paga (siete sicuri non sia un po'
troppo?), e poi magari mi offrirò di fare qualche straordinario perché nulla di quei soldi venga regalato.
Lungi da me il fare la vittima, ci rido
su. Così imparo e la prossima volta nasco più imparata.
Ed invece quel giorno io avevo
domandato i costi delle lezioni di arabo (pensavo si trattasse di un
centro linguistico) e la preside mi aveva offerto un lavoro e mi
diceva che se volevo potevo iniziare da subito.
Non ho mai pensato di insegnare, non
rientra tra i miei piani per il futuro. Ma ricevere una proposta di
lavoro così, senza averlo neppure cercata, rapportarmi ad un viso
sorridente che sembrava leggere del potenziale in quel pezzettino di
carta che è la mia laurea, tutto questo mi lusingava in maniera
commovente e mi sono presa un giorno per pensare e gongolarmi.
Alla fine ho detto di no, un lavoro
vero non lo potevo accettare perché avrebbe rubato troppo tempo
all'internship (non pagata), ed è grazie a questa internship che mi
viene assicurata una casa nella zona, e quindi anche la possibilità
di essere vicina alla scuola. Mi sono comunque offerta di dare
qualche ora di lezione in cambio di un po' di conversazione di arabo.
In più, e mi sono brillati di nuovo gli occhi, la preside mi ha
offerto una mancia mensile con la quale coprirò più o meno le spese
di una settimana.
(Scrivo e tengo tutto bene a mente per
non dimenticare: proposta di lavoro pagato declinata per proseguire
la mia carriera nel non-retribuito. )
Così sono diventata la Miss Silvia
from Europe di questa scuola privata in cui spirito conservatore e
tecnologia vanno a braccetto, un perfetto riassunto di quella parte
del mondo arabo che indulge all'islamismo twittato.
Mi sono rifiutata di mentire circa la
mia nazionalità anche se la preside ritiene darebbe un tocco di
prestigio all'istituto se io mi presentassi come inglese. Anche
l'idea di dare risposte vaghe e misteriose come “vengo dall'Europa” mi sembra cretina, nonostante la
preside ci abbia tenuto a farmi notare che non sarebbe un bugia.
La scuola è grande e nuova, stona con
le macerie che la circondano e con i cumuli di spazzatura che
vengono bruciati di fronte all'ingresso sprigionando ventate di
diossina. A parte questo, posso dire con invidia di non aver avuto la
fortuna di diventare grande in una scuola talmente bella: ci sono i
banchi di legno, ancora profumati di nuovo; c'è la caffetteria che
vende un sacco di cibo confezionato malsano e squisito, ed un
laboratorio multimediale con schermo piatto che ricopre mezza parete;
c'è un laboratorio di scienze attrezzatissimo di quelli che si
vedono nei film, e c'è una sala computer con computer appena usciti
dagli imballaggi. C'è perfino un ambulatorio con dottoressa a tempo
pieno.
Il tutto si accompagna ad uno spirito religioso urlato
cubitale ed a colori sui muri. “Dobbiamo pregare ogni giorno Allah
e ringraziarlo di averci fatti musulmani”, recita la parete
d'ingresso in inglese. I programmi prevedono tante ore di lezione di
Corano quante sono le ore di arabo insegnate, e gli avvisi stampati
per i genitori li congedano dicendo “speriamo che durante questo
anno scolastico vostro figlio raggiunga il massimo dei risultati
inshallah”. Inshallah, inshallah, inshallah, se dio vuole.
Ci vediamo domani inshallah, salutano le colleghe. Guarirai presto
dalla tua infezione all'occhio inshallah. Non intendo perdermi in
un'inutile disquisizione teologica che non avrei gli strumenti per
affrontare, ma ammesso che ci sia, questo Dio, che sia davvero il
caso di chiamarlo in causa per tutte queste stupidaggini? Per
quanto riguarda il cercare di sopravvivere all'indomani incolumi, o
il farsi curare una congiuntivite, credo che potremmo essere
perfettamente in grado di cavarcela da soli tra di noi, umani, ossa e
cervello.
La preside scruta il
mondo da dietro un paio di occhialini tondi e porta sempre il
velo azzurro, mi ricorda una delle suore del mio asilo. Proprio come una
suora ha dedicato la sua vita ai suoi bambini ed alle sue maestre, ci
dice orgogliosa di sentirsi la mamma di tutti noi, è gentile, pronta
all'ascolto, un po' bigotta ma assolutamente fedele ai propri
principi e a quello in cui crede, senza ipocrisie.
Il capo supremo è un uomo ciccione
con dei baffi arricciati ed una sigaretta sempre tra le labbra; ha
qualcosa di sgradevole nei modi e sono contenta di non doverci avere
troppo a che fare.
Purtroppo, però, ha generato parecchia
prole.
La scuola ha una gestione familiare
dall'assetto inspiegabile. Il preside si è malauguratamente
riprodotto in copie di se stesso più grasse e molto più ignoranti.
Tutta la famiglia bighellona per i corridoi senza un incarico
specifico.
Uno avrà qualche anno più di me e mi fa da scagnozzo.
Non sembra molto portato né formato per il mondo dell'insegnamento,
non che io lo sia in fin dei conti. Eppure pare trovarsi a proprio
agio nel ruolo di mio personale mentore dell'educazione. Nei momenti
più inaspettati si affaccia alle finestre che dai corridoi danno
nelle classi e mi interrompe.
Story? Story!
Sì, sono stata incaricata di leggere
dei libretti di favole nelle classi, ed i bambini più piccoli ne
sono contenti. Ma coi ragazzini più grandi ho deciso di fare un po'
di conversazione, visto che non mi sono sembrati troppo entusiasti di
sentirsi ripetere come i tre porcellini siano sopravvissuti al lupo.
Ne ho parlato con la preside, che si è detta d'accordo. L'ho
spiegato anche al mio scagnozzo, diverse volte. Peccato che lui, il
figlio primogenito del proprietario di una prestigiosa scuola di
lingue, l'inglese non lo capisca nemmeno un po'.
Ed immancabile torna ad affacciarsi dal
corridoio.
Story?
Il secondogenito del capo è un
ragazzino in piena crisi ormonale con folti baffetti neri e capelli
impomatati di brillantina; davanti al padre fa il serio ma poi mi si
avvicina sornione, i baffetti neri che si curvano all'insù.
You have boyfriend?
Il più piccolo è uno dei miei
studenti, ahimè il peggiore della sua classe. Ad ogni domanda,
compresa la più semplice, si alza in piedi, sorride beffardo e risponde “Ah?”
La famiglia ha introiettato senza
dubbio un certo ermetismo comunicativo, ma non c'è da andarne fieri.
Ognuno merita il proprio momento di
gloria e popolarità, nella vita. Sarebbe bello poterla avere tutti
da adolescenti, quando a popolarità e gloria si dà tanto peso. Il
mio momento di gloria, con un certo ritardo, è combaciato con la
mia prima settimana come insegnante di inglese presso la Alomram
Language School, Giza. Ho ricevuto diversi aeroplanini coi cuori, una
grande quantità di abbracci, convenevoli dalle famiglie ed inviti in
club sportivi esclusivi.
Ho detto a mia madre che non avrebbe
più nulla da lamentarsi circa il sistema scolastico italiano se
avesse a che fare per qualche giorno con i genitori che iscrivono i
bambini qui.
Classe media non troppo colta ma
bacchettona, questa schiera di trentenni invecchiati presto svolge
una vera e propria attività di stalking a tempo pieno circa
l'operato della scuola e dei suoi insegnanti. Seppur con infinita
gentilezza, ampi sorrisi e modi squisiti, questi genitori affamati di
successo per i propri bambini cercano di intrufolarsi in ogni spazio
lasciato libero al loro occhio attento. Spesso si improvvisano
esperti di lingue, matematica, scienze. Ho assistito a dieci minuti
di sfuriata in arabo da parte di una madre che si lamentava
dell'insegnante di inglese dell'anno prima del figlio, a sua detta
colpevole di avere un pessimo accento. La signora, ovviamente, non
parlava una parola di inglese. Una coppia di genitori dall'aria
preoccupata ha chiesto di parlare col preside perché, a loro avviso,
la ricreazione avrebbe dovuto essere di venti minuti anziché
quindici.
Dopo infinite discussioni, i capi hanno
deciso di imporci una divisa. Visto che la scelta del nero sarebbe
scivolata in troppi cliché, si è optato per dei camici bianchi da dottore (le mie amiche riderebbero conoscendo la mia avversione per
ospedali e medici). Il tutto rende l'atmosfera surreale, soprattutto
quando ad indossare il camice è l'insegnante di Corano, l'unica in
tutta la scuola a portare il niqab con tanto di guantini scuri
corredati.
I bambini sono uguali a tutti i bambini
del mondo per i quali la scuola non è un privilegio ma una scontata
routine. C'è la secchiona, l'antipatico, quello che legge male. Io
mi identifico molto con quelli che non ridono mai quando faccio il
giullare e che alzano raramente la mano; alle elementari
detestavo le lezioni di conversazione e non le trovavo per nulla
divertenti.
In generale, mi sento più rilassata in mezzo a loro che coi loro genitori, anche quando decidono di non
ascoltarmi e non mi riconoscono un minimo di autorità. Non sono
ancora rimasti incastrati nella convenzione, nelle aspettative
collettive, nei pregiudizi. Sono curiosi e spontanei, ridono quando
non si dovrebbe ridere, sono politicamente scorretti, sono buoni o
cattivi senza fingere.
Senza farlo di proposito, mi tolgono la
voce e mi donano qualche soddisfazione. Alla domanda “what's your
favourite subject?” mi sono sentita rispondere “My favourite
subject is Miss Silvia”. Così sbagliato e così dolce!
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