sabato 7 giugno 2014

Sul prendersi fottutamente sul serio

-Premessa : nessuno si offenda. Perche' il punto sta proprio qui.-

Sono anni che mi interrogo sul perche'  la mia produzione incontinente di scribana incompresa subisca un’ impennata in corrispondenza delle mie partenze. Taccuini che si riempiono di saggezza low cost. Impressioni di settembre, di ottobre e di novembre. Note a margine sulle pagine dei libri, spesso pure a penna, cosa proibitissima. Flussi di incoscienza appesi sulle righe, tra le righe, sui quadretti.

Certo, avra’ in buona misura a che fare con la novita’; le nuove sfide, la metafora del viaggio, l’entusiasmo delle cose impacchettate, ancora da scartare.

Ma temo, ahime’, abbia particolarmente a che fare con il problema del prendersi fottutamente sul serio. Gia’ di mio appartengo ad una categoria di essere umani propensi a questo brutto vizio: noi giovani donne di belle speranze senza fissa dimora, vagabonde  per scelta, abbastanza istruite, ne’ brutte ne’ stupide. Noi fanciulle dal trolley facile, abbonate alle relazioni a tempo determinato ed al precariato emotivo. Noi romantiche post-contemporanee; noi ed i nostri cuori gonfi d’amore pronto per venir sparpagliato goffamente tutt'attorno, sempre troppo o troppo poco.

Gli stereotipi si sprecano, e l’apice di tutto cio’ viene raggiunto grazie al momento catartico della partenza purificatrice e rigenerante: la giovane donna mette in borsa svariati libri, il Labello, un po’ di cervello e tanto cuore, ed e’ pronta per una nuova avventura. Una combo micidiale.

So che ci riconoscete con facilita', quando sedete vicino a noi su un volo Ryanair.

E se faticate a riconoscerci, vi posso aiutare: il volo non dura piu’ di due ore, ma noi abbiamo ritenuto opportuno occupare il poco spazio vitale a nostra (e vostra) disposizione con una media di due quotidiani, tre libri ed una rivista. Nel passaggio illogico e a tratti isterico dall’uno all’altro ci impiastricciamo la bocca di Labello, che volare disidrata i tessuti.
Abbiamo sempre sulla punta della lingua formule magiche pallosissime come indipendenza, parita’ dei sessi, uguaglianza, quote rosa (brrrr, no quote rosa no, sarebbe troppo anche per me). Ma  proviamo al tempo stesso un piacere incontenibile nel fare una torta, o nel constatare come il nuovo rimmel sia per davvero waterproof. In soldoni: paghi tu la cena? Fingero’ di offendermi in maniera molto convincente. Non paghi tu la cena? Mi offendero’ per davvero, ma senza darlo a vedere.

Non esiste soluzione, per ora. Ma prometto che ne usciremo.

Comunque, il problema raggiunge dimensioni ingestibili con lo sbarco nella citta’ che, per eccellenza, si prende fottutamente sul serio: mesdames et messieurs, benvenuti a Bruxelles. Credevo si trattasse di leggende metropolitane, ma no! E’ tutto terribilmente vero. La citta’ pattina su sottili equilibri fatti di istituzioni, organizzazioni no profit, abiti da ufficio, cocktails, meteo estremamente variabile e follia collettiva. 

A Bruxelles si fa networking. L’accento e’ sulla o, e la erre e’ ben marcata. Networrrrking. Inutile perdere tempo a cercare di capire cosa il vostro interlocutore  intenda dire concretamente con “sono policy advisor, ma ho un background in media communication”. Sorridere ed annuire, puo’ bastare. Non domandarci la formula che mondi possa aprirti.

Il guaio e’ che ci si prende gusto. Pattinare leggeri sul vuoto in giacca e cravatta e’ allegro, piacevole, assuefante. L’insostenibile leggerezza dell’essere.

Ironia della sorte: per via di una serie di coincidenze, il periodo appena precedente alla mia partenza era coinciso con una crisi di valori senza eguali. Mi sentivo piu’ hippie che mai, pronta ad affrontare a testa alta e con fiori nei cannoni la citta’ grigia e cattiva. Avevo diversi progetti ambiziosi: la pace nel mondo, la cancellazione del debito africano, la decrescita felice, la ceretta per tutte a prezzi popolari; oltre ad una serie di articoli (che sarebbero stati letti  come sempre solo da amici stretti e parenti) sulla Bruxelles inaspettata  che sta dietro ai palazzoni malvagi; un’ipotetica Bruxelles fatta di artisti sognatori, sandali, erba umida, profumo di cibo vegan.

Non mi avranno, dicevo. Cambiero’ il sistema dall’interno. 
Ma Bruxelles e’ cosi’, ti fa entrare dolcemente nel suo abbraccio , ti compra a rate, ti corrompe silenziosamente la coscienza.  All’improvviso ti trovi a districarti agilmente tra le pieghe delle sue contraddizioni. Il sogno hippie e’ sfumato. Ora fai networking anche tu e cedi al fascino di successo, giacca e cravatta.

Ci tengo a dirlo: in questa citta’ si sta bene. Ci sono entrambe, energia da metropoli e dimensione umana. Tanti parchi, birra buona, luce fino a tardi. C’e’ un incredibile potenziale di menti, idee e rivoluzioni inespresse. Il problema vero sta sempre li’: in quella brutta tendenza a prendersi fottutamente sul serio. A crogiolarsi nelle chiacchiere mettendo in un angolo il mondo vero.

Sono stata ad una giornata di conferenze organizzate in occasione della Green Week, un grande evento su tematiche eco e sviluppo sostenibile. Un programma denso ed accattivante, ospiti che promettevano di sapere il fatto loro. Le carte in regola c’erano tutte: location cool e sconfinata per un pubblico altrettanto cool e sconfinato, tanti soldini a disposizione, Mamma UE garante e quindi potenzialmente capace di attrarre visionari, geni, cervelloni. Io ero entusiasta, pronta a sentirmi rivelare l'equazione per distribuire meglio le risorse, per sprecare meno acqua, per rendere piu’ etico il ciclo industriale.  Piu’ realisticamente, ero felice alla prospettiva di qualche bel dibattito critico e costruttivo, che desse da pensare.

Potrei riassumere cosi’ il contenuto delle conferenze a cui ho avuto l’onore di partecipare (ma se qualcosa non risultasse chiaro, un sussidiario di terza elementare potrebbe rivelarsi un valido supporto sull’argomento): dovremmo riciclare di piu’, le risorse stanno finendo, e’ ora di puntare su nuovi tipi di energia, non c’e’ piu’ tempo da perdere.
Grazie a tutti gli ospiti. Applausi! 
Le porte si spalancano, la gente si guarda attorno aggressiva, e’ arrivato il momento d’oro, e’ l’ora del networking. 
Vassoi di tartine, fiumi di vino, nouvelle cousine in eleganti piattini.
Venghino signori, qui si mangia, si beve e nun se paga.
I ghiacciai si stanno sciogliendo? Ora non importa. Ci penseremo piu’ tardi. Siamo il venti per cento della popolazione che usa l’ottanta per cento delle risorse e ce ne vantiamo, abbuffandoci di dolcetti.

La sacra ora del networking mi da da pensare: io non ho dei biglietti da visita! Fare del networking senza biglietti da visita vuol dire partire svantaggiati, tagliarsi fuori dai giochi, perdere in partenza. E la vera domanda e’: se anche li avessi, cosa ci sarebbe scritto sopra? Non sono esperta in nulla, non ho particolari qualifiche, non ho un titolo interessante. Cio’ che non siamo, cio’ che non vogliamo.

Ma finalmente, dopo diverse notti insonni, e’ con felicita’ ed emozione che posso rendere pubblico che si', ce l'ho fatta, ho anche io dei biglietti da visita.


Studentessa. Stagista. Adoro le poltrone e pulire casa con la pianta dei piedi. I'm a cat person.

Abbracciami finche’ vuoi Bruxelles, ma io tengo coscienza e cervello ben aperti.

Complicated yet nice female human being.


(Si ringraziano: Montale, Kundera, il Labello)



domenica 29 settembre 2013

l'Italia, non te ne libererai mai.

L'estero ha sempre avuto un effetto terapeutico nel curare il rapporto tra me ed il mio Paese. Un po' da terapia conflittuale dagli esiti incerti, per essere sincera. Ho lasciato l'Italia per la prima volta a 18 anni, accecata da quella esterofilia che poi si perde col tempo secondo la quale al di fuori dei confini di casa funziona tutto molto meglio e si è sempre molto più felici. A volte, molto spesso, ho visto le cose funzionare meglio che da noi. Non sempre, ma questo lo scopri poi, si è necessariamente più felici. E questa scoperta va a braccetto con quell'altra grande banale rivelazione, quella che ti svela che la felicità è spesso e volentieri dove stanno i tuoi affetti, gli amici di una vita, un pomeriggio coi tuoi fratelli, una birra bevuta in quel solito posto in una serata trascorsa a raccontare del tuo ultimo viaggio. Senza retorica è spesso così , niente più niente meno.

La lontananza da casa ti riappacifica con i paesaggi della tua infanzia, con tutto quello che non andava bene ma che forse non andava poi così male, con tutto quello che non sopporterai poi di nuovo una volta al tuo ritorno ma che ora non ricordi proprio perché ti infastidisse così tanto.
La lontananza da casa ti anestetizza anche dal sapore cattivo delle beghe della politica nazionale.
Qualche volta questo ti distacca emotivamente dalle vicende di palazzo italiane, finisci con lo scorrere sbrigativamente le notizie di politica interna sui quotidiani online, lo fai un po' perché va fatto (insomma, d'altronde studi politica, sai che figura se poi si scopre che non sei preparata sull'argomento).
Altre volte la lontananza non raffredda il tuo interesse ma forse ti dà una visione di insieme più completa, più pratica. Ti aiuta a fare una sintesi senza perderti in troppi dettagli, forse perché sei distante dai litigi, forse perché non ti capita spesso, lontana da casa, di trovarti attorno ad un tavolo a discuterne cercando di essere fedele alle tue posizioni di sempre. Probabilmente perché sei distante in tutti i sensi, e l'aereo che ti ha portata lontana ha macinato i chilometri ma anche i risentimenti, i discorsi triti e ritriti e tutti gli spiriti militanti di ogni forma e colore.

Il mio pensiero va spesso all'Italia ora che mi trovo in un paese con ancora più problemi e di più difficile soluzione rispetto ai nostri. E' più facile dimenticarsi dei problemi nostrani sotto la pioggia inglese, o nella Vienna dall'eleganza perfetta. E' più facile ricordarsene, con l'amaro in bocca, camminando per le strade di un paese meraviglioso che si sta buttando via e che lascia perplessi in molti circa le possibilità ed i tempi di ripresa. Facendomi largo tra la spazzatura per rientrare a casa, spesso mi arrabbio e mi chiedo perchè gli egiziani non abbiano un po' più cura della propria terra. Ma forse mi arrabbio perché spero di trovare in quella domanda e nella sua risposta qualcosa che mi aiuti a capire un po' meglio il mio di paese, e le ragioni per le quali si stia buttando via.

Leggere la notizia dell'invito alle dimissioni fatto da Berlusconi ai ministri del Pdl mi ha riempita di tristezza. Non mi ha nemmeno sfiorata un moto di giubilo, neanche l'ombra di un sorriso soddisfatto, non ho pensato “si sapeva che non c'era da fidarsi”, o “così imparano quegli elettori cretini”, o “ecco la prova di che pasta sono fatti”.
La notizia mi ha riempito di tristezza perché, che ci piacciano o meno quelli seduti in poltrona adesso, abbiamo un incredibile bisogno di un governo ora. Abbiamo bisogno di qualcuno che cambi la legge elettorale, che ridia credibilità al nostro paese attirando gli investimenti esteri, che crei posti di lavoro, che risolva i diecimila problemi che ci affliggono, quei problemi che bloccano la crescita e che rendono tutto immobile e stantio. Quei problemi per cui se qualcuno ha una bella idea nuova, creativa, gli conviene andarsene a darle forma altrove perchè da noi non c'è tempo, non c'è spazio, non c'è modo. Quegli stessi problemi per cui se mando decine di cv elemosinando uno stage (uno stage!) nessuno mi risponde. 
Quello di cui non abbiamo bisogno è invece l'ennesimo vuoto di potere, è spendere un sacco di soldi in nuove elezioni, è sprecare tutte le energie di un'intera classe politica dietro alle vicende giudiziarie di quell'Unico che fa il buono ed il cattivo tempo da vent'anni.

Non so perchè sto qui a parlarne. Avrei tante altre cose da sbrigare, stiamo scrivendo un progetto per costruire un centro di formazione in una zona disagiata del Cairo, ci servono fondi. Più terra a terra dovrei fare il bucato, che ho quasi finito le mutande. Ma oggi il cordone ombelicale tira forte, e sono arrabbiata. Anche l'altra sera il cordone tirava forte ma perchè ero da amici italiani a dormire, avevo una stanza tutta per me e la tivù coi canali RAI trasmetteva un servizio su Rino Gaetano. Mi sono addormentata col sottofondo di "Mio fratello è figlio unico" e mi sono sentita a casa, qualunque cosa questo voglia dire, ancora una volta; ho dormito bene.
Quante contraddizioni in un solo stivale.

Ps: odio indulgere nel sentimentalismo, ma questa volta temo di esserci cascata. Mi manca anche la mozzarella, comunque.







mercoledì 18 settembre 2013

Indovina chi è diventata maestra


Le cose hanno preso una piega inaspettata. Entrata in una scuola del luogo domandando lezioni di arabo, ne sono uscita con una proposta di lavoro come insegnante di inglese. Ero frastornata. Sono cresciuta e continuo a barcamenarmi nell'Europa delle infinite ere da stagista. Il mio senso di gratitudine si accende naturalmente anche solo nell'eventualità che qualcuno mi risponda dicendo che no, al momento non ci sono progetti di internship in programma. Che gentili a personalizzare la mail col mio nome! Mi sforzo affinché le parole mi plasmino, cerco di raccontarmi come nelle aspettative dell'annuncio, invio lettere di motivazione e referenze piene di ossequi pregando che mi venga offerto un full- time a costo zero. Quando otterrò il mio primo impiego con rimborso spese a 500 euro proverò probabilmente ad insistere per farmi abbassare la paga (siete sicuri non sia un po' troppo?), e poi magari mi offrirò di fare qualche straordinario perché nulla di quei soldi venga regalato.
Lungi da me il fare la vittima, ci rido su. Così imparo e la prossima volta nasco più imparata.

Ed invece quel giorno io avevo domandato i costi delle lezioni di arabo (pensavo si trattasse di un centro linguistico) e la preside mi aveva offerto un lavoro e mi diceva che se volevo potevo iniziare da subito.
Non ho mai pensato di insegnare, non rientra tra i miei piani per il futuro. Ma ricevere una proposta di lavoro così, senza averlo neppure cercata, rapportarmi ad un viso sorridente che sembrava leggere del potenziale in quel pezzettino di carta che è la mia laurea, tutto questo mi lusingava in maniera commovente e mi sono presa un giorno per pensare e gongolarmi.

Alla fine ho detto di no, un lavoro vero non lo potevo accettare perché avrebbe rubato troppo tempo all'internship (non pagata), ed è grazie a questa internship che mi viene assicurata una casa nella zona, e quindi anche la possibilità di essere vicina alla scuola. Mi sono comunque offerta di dare qualche ora di lezione in cambio di un po' di conversazione di arabo. In più, e mi sono brillati di nuovo gli occhi, la preside mi ha offerto una mancia mensile con la quale coprirò più o meno le spese di una settimana.
(Scrivo e tengo tutto bene a mente per non dimenticare: proposta di lavoro pagato declinata per proseguire la mia carriera nel non-retribuito. )

Così sono diventata la Miss Silvia from Europe di questa scuola privata in cui spirito conservatore e tecnologia vanno a braccetto, un perfetto riassunto di quella parte del mondo arabo che indulge all'islamismo twittato.
Mi sono rifiutata di mentire circa la mia nazionalità anche se la preside ritiene darebbe un tocco di prestigio all'istituto se io mi presentassi come inglese. Anche l'idea di dare risposte vaghe e misteriose come “vengo dall'Europa” mi sembra cretina, nonostante la preside ci abbia tenuto a farmi notare che non sarebbe un bugia.
La scuola è grande e nuova, stona con le macerie che la circondano e con i cumuli di spazzatura che vengono bruciati di fronte all'ingresso sprigionando ventate di diossina. A parte questo, posso dire con invidia di non aver avuto la fortuna di diventare grande in una scuola talmente bella: ci sono i banchi di legno, ancora profumati di nuovo; c'è la caffetteria che vende un sacco di cibo confezionato malsano e squisito, ed un laboratorio multimediale con schermo piatto che ricopre mezza parete; c'è un laboratorio di scienze attrezzatissimo di quelli che si vedono nei film, e c'è una sala computer con computer appena usciti dagli imballaggi. C'è perfino un ambulatorio con dottoressa a tempo pieno.
 Il tutto si accompagna ad uno spirito religioso urlato cubitale ed a colori sui muri. “Dobbiamo pregare ogni giorno Allah e ringraziarlo di averci fatti musulmani”, recita la parete d'ingresso in inglese. I programmi prevedono tante ore di lezione di Corano quante sono le ore di arabo insegnate, e gli avvisi stampati per i genitori li congedano dicendo “speriamo che durante questo anno scolastico vostro figlio raggiunga il massimo dei risultati inshallah”. Inshallah, inshallah, inshallah, se dio vuole. Ci vediamo domani inshallah, salutano le colleghe. Guarirai presto dalla tua infezione all'occhio inshallah. Non intendo perdermi in un'inutile disquisizione teologica che non avrei gli strumenti per affrontare, ma ammesso che ci sia, questo Dio, che sia davvero il caso di chiamarlo in causa per tutte queste stupidaggini? Per quanto riguarda il cercare di sopravvivere all'indomani incolumi, o il farsi curare una congiuntivite, credo che potremmo essere perfettamente in grado di cavarcela da soli tra di noi, umani, ossa e cervello.

La preside scruta il mondo da dietro un paio di occhialini tondi e porta sempre il velo azzurro, mi ricorda una delle suore del mio asilo. Proprio come una suora ha dedicato la sua vita ai suoi bambini ed alle sue maestre, ci dice orgogliosa di sentirsi la mamma di tutti noi, è gentile, pronta all'ascolto, un po' bigotta ma assolutamente fedele ai propri principi e a quello in cui crede, senza ipocrisie.
Il capo supremo è un uomo ciccione con dei baffi arricciati ed una sigaretta sempre tra le labbra; ha qualcosa di sgradevole nei modi e sono contenta di non doverci avere troppo a che fare.
Purtroppo, però, ha generato parecchia prole.

La scuola ha una gestione familiare dall'assetto inspiegabile. Il preside si è malauguratamente riprodotto in copie di se stesso più grasse e molto più ignoranti. Tutta la famiglia bighellona per i corridoi senza un incarico specifico. 
Uno avrà qualche anno più di me e mi fa da scagnozzo. Non sembra molto portato né formato per il mondo dell'insegnamento, non che io lo sia in fin dei conti. Eppure pare trovarsi a proprio agio nel ruolo di mio personale mentore dell'educazione. Nei momenti più inaspettati si affaccia alle finestre che dai corridoi danno nelle classi e mi interrompe.
Story? Story!
Sì, sono stata incaricata di leggere dei libretti di favole nelle classi, ed i bambini più piccoli ne sono contenti. Ma coi ragazzini più grandi ho deciso di fare un po' di conversazione, visto che non mi sono sembrati troppo entusiasti di sentirsi ripetere come i tre porcellini siano sopravvissuti al lupo. Ne ho parlato con la preside, che si è detta d'accordo. L'ho spiegato anche al mio scagnozzo, diverse volte. Peccato che lui, il figlio primogenito del proprietario di una prestigiosa scuola di lingue, l'inglese non lo capisca nemmeno un po'.
Ed immancabile torna ad affacciarsi dal corridoio.
Story?
Il secondogenito del capo è un ragazzino in piena crisi ormonale con folti baffetti neri e capelli impomatati di brillantina; davanti al padre fa il serio ma poi mi si avvicina sornione, i baffetti neri che si curvano all'insù.
You have boyfriend?
Il più piccolo è uno dei miei studenti, ahimè il peggiore della sua classe. Ad ogni domanda, compresa la più semplice, si alza in piedi, sorride beffardo e risponde “Ah?”
La famiglia ha introiettato senza dubbio un certo ermetismo comunicativo, ma non c'è da andarne fieri.

Ognuno merita il proprio momento di gloria e popolarità, nella vita. Sarebbe bello poterla avere tutti da adolescenti, quando a popolarità e gloria si dà tanto peso. Il mio momento di gloria, con un certo ritardo, è combaciato con la mia prima settimana come insegnante di inglese presso la Alomram Language School, Giza. Ho ricevuto diversi aeroplanini coi cuori, una grande quantità di abbracci, convenevoli dalle famiglie ed inviti in club sportivi esclusivi.
Ho detto a mia madre che non avrebbe più nulla da lamentarsi circa il sistema scolastico italiano se avesse a che fare per qualche giorno con i genitori che iscrivono i bambini qui.
Classe media non troppo colta ma bacchettona, questa schiera di trentenni invecchiati presto svolge una vera e propria attività di stalking a tempo pieno circa l'operato della scuola e dei suoi insegnanti. Seppur con infinita gentilezza, ampi sorrisi e modi squisiti, questi genitori affamati di successo per i propri bambini cercano di intrufolarsi in ogni spazio lasciato libero al loro occhio attento. Spesso si improvvisano esperti di lingue, matematica, scienze. Ho assistito a dieci minuti di sfuriata in arabo da parte di una madre che si lamentava dell'insegnante di inglese dell'anno prima del figlio, a sua detta colpevole di avere un pessimo accento. La signora, ovviamente, non parlava una parola di inglese. Una coppia di genitori dall'aria preoccupata ha chiesto di parlare col preside perché, a loro avviso, la ricreazione avrebbe dovuto essere di venti minuti anziché quindici.

Dopo infinite discussioni, i capi hanno deciso di imporci una divisa. Visto che la scelta del nero sarebbe scivolata in troppi cliché, si è optato per dei camici bianchi da dottore (le mie amiche riderebbero conoscendo la mia avversione per ospedali e medici). Il tutto rende l'atmosfera surreale, soprattutto quando ad indossare il camice è l'insegnante di Corano, l'unica in tutta la scuola a portare il niqab con tanto di guantini scuri corredati.

I bambini sono uguali a tutti i bambini del mondo per i quali la scuola non è un privilegio ma una scontata routine. C'è la secchiona, l'antipatico, quello che legge male. Io mi identifico molto con quelli che non ridono mai quando faccio il giullare e che alzano raramente la mano; alle elementari detestavo le lezioni di conversazione e non le trovavo per nulla divertenti.
In generale, mi sento più rilassata in mezzo a loro che coi loro genitori, anche quando decidono di non ascoltarmi e non mi riconoscono un minimo di autorità. Non sono ancora rimasti incastrati nella convenzione, nelle aspettative collettive, nei pregiudizi. Sono curiosi e spontanei, ridono quando non si dovrebbe ridere, sono politicamente scorretti, sono buoni o cattivi senza fingere.
Senza farlo di proposito, mi tolgono la voce e mi donano qualche soddisfazione. Alla domanda “what's your favourite subject?” mi sono sentita rispondere “My favourite subject is Miss Silvia”. Così sbagliato e così dolce!






martedì 27 agosto 2013

brevi riflessioni senza conclusioni

Durante il weekend sono stata a Dokki a passare la giornata con una coppia di ragazzi italiani che vivono qui da quasi un anno. Sono arrivati al Cairo un po' per sbaglio, ma poi si sono trovati bene. La zona in cui abitano è così diversa da questo deserto, lì la città si riappropria del terreno con asfalto, palazzoni, movimenti veloci. La sera abbiamo cenato coi vicini di casa. Tra loro c'era un freelance brasiliano che ci ha raccontato delle sue sette ore di detenzione nelle carceri egiziane. La settimana prima era stato arrestato ad un check point mentre viaggiava su un taxi, di ritorno dal lavoro. Il suo è uno dei tanti episodi che vedono coinvolti i giornalisti occidentali che coprono la città, recentemente vittime di arresti, minacce e sequestro di materiale ed apparecchiatura.
Ieri su The Guardian ho letto un articolo di Rachel Shabi che ho trovato ben scritto e che mi è sembrato saper rendere la complessità dell'Egitto attuale. Ecco il link: http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/aug/25/egypt-coup-muslim-brotherhood .
Una volta qui, gli interrogativi posti da lontano non trovano risposta ma si moltiplicano, ed ora mi riesce difficile rispondere senza vacillare anche alla domanda apparentemente più scontata; è questa l'unica cosa che mi sento di dire senza esitazioni dopo due settimane. L'accusa principale mossa dai media nazionali a quelli internazionali (e la ragione per la quale gli stranieri hanno iniziato ad essere guardati con un certo sospetto ed i giornalisti a finire dietro le sbarre) è che questi abbiano sposato la causa dei Fratelli musulmani arrivando ad appoggiarli. Conosco bene le ragioni di testa e di cuore che potrebbero portare qualunque giornalista occidentale a sposare la causa dei diritti e della libertà di espressione. Sono le stesse ragioni che li avranno condotti a raccontare all'Occidente le violenze perpetrate dagli autori del coup. Ma la situazione è effettivamente molto più complessa di quanto si possa rendere in qualche riga di sensazionalismo mediatico.
La televisione di stato egiziana sta facendo una sorta di lavaggio del cervello ai suoi utenti; in alto a sinistra sullo schermo campeggia un'unica scritta in inglese, costante: Egypt is fighting terrorism. Ma non si lava il cervello ad una nazione in pochi giorni. Ho visto ben due famiglie, durante i miei rari spostamenti in macchina, farsi fotografare sorridenti davanti al carrarmato, i bambini piccoli tra le braccia dei soldati. Non ho parlato con una singola persona, indipendentemente dall'estrazione sociale e dall'età, che si sia mostrata compassionevole con la causa della Fratellanza o perplessa nei confronti dell'atto di forza dell'esercito.
Più di tutto, quello che scuote la mia sensibilità europea e mi fa sentire pure colpevole è il fatto di non riuscire a ritenere nessuna di queste persone una cattiva persona. Mi mancano le coordinate e più ci penso e più mi confondo.



dove finisce l'asfalto

APPUNTI DEL 23 AGOSTO
Questa Giza è molto diversa da come l'avevo immaginata. Non è la Giza che si aggrappa alla città ma quella che si tuffa nel deserto. Lasciata alle spalle una larga via trafficata, una delle tante, la strada si fa sabbia. Cambiano suoni ed odori, sembra ci sia più luce, gli asini avanzano di fianco alle macchine. Il centro abitato a cui ci appoggiamo per le spese giornaliere pare non essersi accorto di come è cambiata la città al suo fianco; distende le ore su ritmi ciclici rilassati e ben conosciuti. Nulla a che vedere con Helipolis. Qui le tradizioni mostrano radici ben più solide e poco del resto del mondo sembra interessare alla gente del posto. O forse hanno tutti quanti altro a cui pensare. Gli uomini fumano la shisha e giocano a blackgammon attorno a tavolini in legno che fanno da spartitraffico, le donne mostrano appena lo sguardo dietro ai veli pesanti, i bambini siedono di fianco ai mucchi di spazzatura.
La società per cui mi trovo qui, che è anche la mia casa, svetta altezzosa ed inattesa a pochi passi da tutto questo, col suo edificio quadrato di mattoni ed il suo bel giardino di palme e fiori. Le ambizioni di design moderno ed il gusto egiziano culminano in un risultato bizzarro e discutibile. Le finestre grandi inondano di luce un susseguirsi di uffici, stanze ariose, salottini, sale conferenze. E' quasi tutto vuoto. Questo è uno di quei posti che da bambina mi avrebbero fatta impazzire di gioia e di paura, ci avrei ricamato sopra storie e misteri chiusi a chiave. Fedele ai miei vizi d'infanzia giro per queste grandi stanze in cui rimbombano i passi e faccio attenzione ai dettagli, ci cerco i segni di un passato di successo, quando quelle sale dovevano essere tutte piene e gli uffici al lavoro senza sosta. Alle pareti sorridono felici in posa da foto di gruppo le decine di impiegati annuali. Di loro restano due receptioniste, una donna delle pulizie e qualche guardiano. Il capo, una signora egiziana che nella zona raccontano essere ricca ed influente, non si è ancora fatta vedere. Al suo posto prende forma poco distante una villa di cui si dice lei abbia commissionato la costruzione. Mi chiedo chi sia questa benefattrice di cui tutti parlano con rispetto, potente, influente, colta, forse un po' spregiudicata nel suo ruolo di buona. Ci invia mail generiche ed ampiamente interpretabili, ci rifila le cose noiose di cui non si vuole occupare. E' gentile ma fredda. Sembriamo essere l'ultimo dei suoi pensieri.
Siamo rimaste solo in due, io e Daria. Gli altri se ne sono andati senza che io abbia avuto troppo tempo per averci a che fare. Daria è molto giovane e mi ricorda me stessa qualche anno fa, quando la forma valeva più della sostanza. Ma è gentile e ci facciamo una compagnia spesso silenziosa.
La sera del mio arrivo abbiamo camminato al buio verso il centro dell'abitato poco distante. L'aria sa di sabbia ma la sera diventa fresca. Qui vicino nessuno sembra aver preso troppo sul serio la storia del coprifuoco. Dopo cena l'incrocio tra le due strade di sabbia diventa una piazza di paese e ne adotta i rituali tipici. I ragazzi si raggruppano attorno ai motorini ed i bambini girano divisi in bande. Le bambine si muovono graziose ed un po' vanitose in un gruppo a sé stante che guarda i maschi da lontano. Le donne adulte hanno l'aria di non aver ancora finito le commissioni della giornata, escono da una porta e rientrano da un'altra poco lontana, mentre gli uomini continuano a fumare in cerchio. Qui ritrovo qualcosa che appartiene al mio personale immaginario dell'Italia povera di tanti anni fa. E' sciocco da dire, ma mi ha stupita notare come nessuno sembri particolarmente infelice.
Quella sera eravamo due ragazze alte e bianche, un ragazzo di Honk Hong ed un inglese pakistano sbucati dalla sabbia. Ci guardavano con uno stupore che pensavo si riservasse ad altre cose. Le bambine ci avvicinavano intimidite, la più impavida faceva un passo in più e srotolava un whatsyourname tutto attaccato, subito dopo scappava ridendo senza aspettare una risposta. Poi si sono fatte più coraggiose, e alla nostra domanda su quali fossero i loro nomi hanno fatto a gara per chi dovesse rispondere prima. I bambini sembravano più interessati al ragazzo di Honk Hong di cui trovavano particolarmente divertenti i tratti somatici. Gli giravano attorno tirandosi gli occhi a mandorla e lo deridevano senza tentare di nasconderlo. Vigeva un' interessante forma di nonnismo per la quale dopo un po' arrivavano i ragazzini più grandi, sgridavano i piccoli per averci disturbati e si piazzavano allo stesso posto loro stessi, fissandoci.
Daria ha iniziato a scattare fotografie in giro ed i bambini si muovevano in gruppo ovunque lei spostasse l'obiettivo. Poi un uomo basso e largo si è arrabbiato perché ha creduto di essere stato fotografato. Si è avvicinato e ha chiesto a Daria di consegnargli la macchina. Daria gli ha fatto capire di non averne intenzione e lui ha iniziato ad essere aggressivo. Si è creato un raggruppamento di uomini attorno a noi e tutti hanno iniziato ad urlare e prendersi a spintoni, gli amici dell'uomo arrabbiato contro tutti gli altri e viceversa. Ci siamo fatti largo nella nuvola di polvere e ce la siamo squagliata lasciandoci dietro lo scompiglio che avevamo generato. Il giorno dopo abbiamo saputo da uno dei guardiani che l'uomo largo ed i suoi amici si erano insospettiti per via delle belle macchine che portavamo al collo (io no, personalmente. Non ho neppure una digitale compatta e lo smartphone si è spento per sempre); ma soprattutto li aveva allarmati l'aspetto di Jamir, la sua carnagione grigiastra, la sua barba lunga e la camicia ampia di lino. Ci avevano scambiati per un gruppo di giornalisti venuti a curiosare, e quello che peggiorava la nostra posizione ai loro occhi era il fatto che fossimo un gruppo di giornalisti venuti a curiosare scortati da un fratello musulmano, Jamir. Mi fa molto ridere pensare a come il suo look da hipster metropolitano in fuga nel deserto qui possa prestarsi a simili interpretazioni.

I guardiani sono sorridenti e pieni di attenzioni, parlano solo arabo ma sembrano tenerci alla comunicazione. Mohammed si spiega con le mani e quando si convince che io abbia capito torna alle parole. Ed io ovviamente non ci capisco niente. Ogni tanto gli spiego qualcosa in inglese, lentamente, poi di colpo gli brillano gli occhi e soddisfatta penso che mi abbia compresa ma invece no, si gira dall'altra parte, racconta agli altri quello che crede io abbia detto ed è allora che mi accorgo che non ci ha capito un bel nulla. 

Un altro di loro, Aamir, quello che un po' di inglese lo parla e che racconta fiero che i suoi figli sono tutti Dottori, interrompe sempre la mia corsetta serale dietro casa per farmi parlare al telefono con sconosciuti italiani suoi amici. Sono sempre telefonate molto imbarazzanti durante le quali né io né i miei interlocutori sappiamo bene cosa dirci. Ma so che ad Aamir fa piacere e quindi mi presto al gioco sorridente. Ieri sera aveva voglia di chiacchierare ed io gli ho dato corda anche se non vedevo l'ora di tornare in camera per farmi una doccia. Si è proposto di accompagnarci al centro commerciale, a vedere i cavalli ed alle piramidi. Every time, every time Silvia. But please Silvia don't taLk to people because people like to talk too much. Poi si è fatto tutto serio. Why newspapers in europe talk good about the Muslim Brothers? Muslim Brothers is very very bad. I don't understand why the newspapers say good about them and like them so much.
Una riga che aggiungo alla lista delle cose da fare prima di lasciare l'Egitto, assieme a vedere la Sfinge e raggiungere il mare, è riuscire a rispondere a Aamir, e voglio che sia una risposta soddisfacente per entrambi.

lunedì 19 agosto 2013

le chiacchiere da bar sono sottovalutate

APPUNTI DEL 17 AGOSTO
Oggi è stata una giornata interessante. Ieri sera mi sentivo prossima all'esaurimento. Mi chiedevo a quale causa mi fossi votata per aver scelto di passare il mio agosto in una città che non potevo neppure vedere, chiusa in un appartamento afoso e sempre più sporco, sudata anche dopo la doccia, con un principio di cervicale dovuta alle strane posizioni assunte per rubare la connessione ai vicini. Chi me lo fa fare? C'è forse qualcosa di mentalmente sano in una scelta simile? Non c'è neppure nulla di eroico in una scelta simile, o di utilitaristico. Non ho nemmeno un buon lavoro qui, al momento ad essere precisi un lavoro non ce l'ho proprio. In ogni caso, per non sbagliarsi, non sarà pagato. 
Molto tardi, un bel po' dopo l'inizio del coprifuoco, la ragazza marocchina e suo cugino si erano affacciati alla porta della stanza sfoggiando cappellini con la visiera e trascinando valigie . Mi auguravano un buon fine settimana, erano in partenza per Sharm el Sheikh. Mi avevano colta talmente di sorpresa che non mi era neppure venuto in mente di chiedere loro come pensavano di arrivarci, a Sharm el Sheikh. Le strade percorribili in macchina ed autobus erano bloccate per via del rischio attentati in Sinai, lo sono tutt'ora. Riguardo ai voli, li avevano controllati la sera prima davanti a me convenendo che fossero tutti troppo cari. Mi ero sentita sola e triste perché la musica maghrebina dance che mi propinavano di continuo era pur sempre un sottofondo, e le altre due coinquiline passano tutto il tempo rinchiuse nella loro cella frigorifera, unica stanza dell'appartamento raffreddata a livelli malsani da un impianto di condizionamento. Poco dopo, le ultime pagine di Addio alle armi mi avevano rattristata incredibilmente atterrando completamente il mio umore e rendendomi empatica a livelli raggiunti forse da bambina con la lettura dei Ragazzi della Via Pal. Perchè?? Perchè Hemingway aveva scritto un finale così crudele? Non era bastato il bambino, era stato proprio necessario far morire anche Catherine? Era così bella! I medici avrebbero dovuto trovare il modo per salvarla! Erano talmente felici assieme, quei due! Lo stato di prostrazione emotiva che mi ha condotta al sonno sfiorava il patetico per intensità ed assurdità.


Ma oggi, dicevo, è stata una giornata interessante. Sono scesa a fare colazione al café dove ho recentemente trascorso ciò che avanza del tempo che passo a casa. È un posto sobrio, ben climatizzato, i proprietari sono gentili e c'è la rete wifi gratis. Se si evitano i sandwiches al pollo e pure quelli al tacchino, per il resto credo si possa rimanere abbastanza soddisfatti. Oggi si è seduta al tavolo accanto al mio una famigliola locale dall'aria benestante ed allegra. Padre robusto, madre matronale, velata ed imbellettata, bambina vestita di rosa dall'aria smorfiosa e piccolino di casa indaffarato al game boy. Il padre è stato incredibilmente cortese, mi ha chiesto da dove venissi e di cosa mi occupassi (di niente! Non mi occupo di niente di qui a qualche giorno!), mi ha presentato uno per uno i membri della propria famiglia cercando di coinvolgerli nella conversazione, ma ho notato che sono stati presto tutti contenti di estraniarsene. Poi ha iniziato a parlare della crisi politica interna al Paese. Credo fosse interessato a conoscere il mio punto di vista esterno, ma io lo ero di più di conoscere il suo e ho lasciato che si dilungasse nel suo inglese marcatamente arabo. Ha premesso di non amare i Fratelli musulmani e di non averli votati. Si è detto religioso ma convinto che la commistione tra religione e politica non abbia mai portato a nulla di buono nella storia. Nonostante questo , diceva, quello che sta succedendo non è ammissibile. C'erano stato 4500 morti, lo sapevo? La gente avanzava con le mani in alto ed i cecchini sparavano, i colpi venivano rilasciati ad altezza d'uomo, da viso a viso, occhi negli occhi. Lo sapevo, certo, i giornali internazionali non parlavano d'altro e continuavo ad essere premurosamente aggiornata via messaggio. Bisognava che gli Stati Uniti e l'Europa facessero qualcosa. Questa dichiarazione mi aveva stupita, davvero volevano che per l'ennesima volta gli occidentali ci mettessero le mani? Ha proseguito e ho capito il realismo che stava alla base della sua affermazione. La caduta di Morsi aveva alle spalle un intervento della Cia, ha continuato, nessuno lo dice ma qui tutti lo sappiamo. Senza vanti, io ho le mie conoscenze signorina, e le assicuro che è così. L'America aveva troppi interessi in ballo in questo Paese per lasciare che lo stato subisse un processo di islamizzazione in grado di minare i suoi buoni rapporti con l'Occidente. Il coup era stato voluto in primis dagli americani, mi diceva. Al-Sisi è un burattino nelle loro mani, e se gli Stati Uniti prendessero una posizione netta contro le violenze, chiedendo in maniera perentoria di fermarle, lui eseguiebbe a testa bassa. Io sono contrario a queste inferenze esterne, diceva, ma è ora che gli USA usino il loro potere per far qualcosa di buono e far fermare il massacro. Altrimenti, sarà una guerra civile. L'Egitto, lo sa signorina, è il paese arabo più popoloso, e ha da sempre un'enorme quantità di interazioni di varia natura con l'Occidente. Se sprofondiamo nel baratro, se ci capita quello che sta capitando alla Siria, mi diceva, ci trasciniamo dietro tutti gli altri. Le conseguenze politiche sarebbero imprevedibili ma quelle economiche facilmente deducibili. L'ho ascoltato interessata, non sono mai stata una complottista integralista, credo che spesso l'intervento esterno si sommi a tanti altri fattori, ma parlava con cognizione di causa, era lucido ed equilibrato nelle sue analisi. Ero contenta che il primo egiziano con cui discutevo della situazione sostenesse posizioni nelle quali potermi ritrovare, che anche lui ponesse l'accento sulle violenze, sul rispetto dei diritti politici. Noi occidentali ci entusiasmiamo sempre quando abbiamo conferma esterna di quello che ci hanno insegnato ed in cui, tutto sommato, ingenuamente crediamo: non c'è ragione che tenga davanti al non rispetto dei diritti umani, civili, politici. I diritti umani piacciono a tutti, devono piacere a tutti, sono i diritti di tutti, sono diritti universali! Ho salutato la famiglia con sorrisi soddisfatti, felice di averci capito qualcosa. 


Nel pomeriggio è passato a prendermi Duha. Duha è uno dei membri della disorganizzata associazione che mi ha portata qua e nei cui ingranaggi sono sfortunatamente rimasta incastrata. Non sarebbero riusciti ad accompagnarmi a Giza nemmeno oggi, mi diceva, però voleva portarmi fuori e farmi distrarre un po'. È passato a prendere me e l'altra coinquilina con la sua bella macchina profumata. È un ragazzo alto, veste bene e ha maniere affabili. In sua compagnia le differenze culturali di superficie si riducono al minimo, fino a quando non finiamo a parlare di politica. Gli chiedo cosa ne pensa di tutto questo, e so già cosa voglio sentirmi dire. Ma lui dice qualcosa di diverso, e rabbrividisco. Si, ci sono stati dei morti e gli dispiace. Ma è la storia che torna circolare, bisogna sacrificare qualcuno perché gli altri riescano a stare meglio. E se sono morti, in fin dei conti, è perché se la sono cercata. Parlava con naturalezza e convinzione, guidava veloce e sicuro. Ho ribattuto con un flebile “io sono comunque contraria alle violenze” che è risuonato ridicolo, vuoto e stonato. Siamo finiti a bere frappè in un posto con le poltroncine foderate in stoffa e i muri arancioni. La compagnia era allegra e dava corda all'istrione del gruppo, un ragazzo slavato che faceva battute cretine e mi dava sui nervi. Finalmente avevo sdoganato l'isolato, e la macchina. Sentivo i nervi rilassarsi ma la mente ripercorreva le parole ascoltate che mi avevano seccato la gola. In fin dei conti, chi sono io per dare lezioni ad un egiziano su come dovrebbe pensarla riguardo al proprio Paese? Le due ragazze del gruppo avevano occhi profondi e bellissimi ed un sorriso dolce. Mi hanno chiesto di me, di cosa mi avesse portata qui e non altrove, che cosa pensassi dell'Egitto. Ho colto l'occasione per chiedere a loro, cosa ne pensassero. Io d'altronde avevo visto e sentito così poco, non potevo pensarne molto. E poi, forse, avevo bisogno di sentirle vicine a me oltre la condivisione di un frappè e della stessa pettinatura. Sono cresciuta con quelle convinzioni naif secondo cui se il mondo fosse nelle mani delle donne tutto funzionerebbe meglio, non ci sarebbero guerre, ovunque regnerebbero armonia e collaborazione. E' irriducibilmente uno dei pilastri su cui ho formato il mio idealismo, che purtroppo o per fortuna non mi ha mai abbandonata del tutto. Cerco sempre di contrapporvi una storiella riportatami non mi ricordo da chi tanti anni fa. Riguardava una femminista dura e pura della prima guardia, di quelle che bruciavano i reggiseni; quando le venne chiesto in un'intervista se avrebbe preferito che la pena di morte venisse abolita o che la professione del boia venisse aperta anche alle donne, rispose senza esitazioni “senz'altro la seconda opzione”. Non c'entra molto ma alla fine c'entra sempre, mi riporta alla concretezza del fatto che, ben lungi dall'essere creature potenzialmente migliori, siamo semplici figlie dei nostri tempi e della nostra formazione, buonista o meno che sia. 
 Questo è quello che l'Egitto si merita, ha esordito una delle due ragazze, minuta e coi capelli lunghi. Abbiamo aperto le carceri, fatto uscire migliaia di delinquenti e abbiamo eletto uno di loro Presidente, ha continuato, cosa potevamo aspettarci? Non l'ho interrotta. Non le ho detto che credevo le cose fossero andate un po' diversamente, e che Morsi e molti dei Fratelli musulmani erano prigionieri politici e non comuni delinquenti. Seppur ancora una volta fedele alla mia versione dei fatti, che diritto ho io, di dare lezioni agli altri? Anche l'altra ragazza si è fatta spazio nel discorso, premettendo di essere inorridita dalle violenze degli ultimi giorni, come si potrebbe non esserlo? Ma i Fratelli musulmani sono pericolosi, ha continuato, e se si fossero fermati prima tutto questo non sarebbe successo! Erano mesi che bloccavano le normali attività cittadine, che seminavano il terrore, che minacciavano la sicurezza girando armati. Vorrei vedere se non la penseresti come noi, mi ha detto guardandomi fissa negli occhi, se il tuo Paese fosse in ostaggio di una minaccia terrorista.
Bevevamo frappè alla fragola e ridevamo assieme; ma c'era un muro abbastanza spesso tra di noi, e quel muro si chiamava storia o forse cultura politica o forse solo fortuna di essere nate al posto giusto nel momento giusto, o il suo contrario.
Quelle ragazze dai sorrisi dolci sono cresciute in un regime militare che, ai loro occhi, è stato il migliore dei mondi possibili. Il migliore perché l'unico che hanno avuto la possibilità di vivere, a parte il breve inframezzo di Morsi. Inframezzo durante il quale, tra l'altro, hanno visto i propri diritti di donne libere e indipendente minacciati dall'ondata religiosa di ritorno.
So come la penso, la linea che posso tracciare tra ammissibile e non ammissibile è netta, e la repressione violenta sta dalla parte delle cose inammissibili. 
Quello che non so,  su cui non avevo mai riflettuto prima, è se al posto di quelle ragazze sarei tanto migliore.






il mio 14 agosto, o come tutto succedeva attorno mentre a me non succedeva nulla

APPUNTI DEL 16 AGOSTO
Dopo tre giorni al Cairo, oggi finalmente l'ho visto, il Cairo. Per poco, è passato veloce dietro ai finestrini mentre lo abbiamo attraversato su un macchina scalcagnata e rumorosa. È stato comunque molto di più del centinaio di metri di strada che mi era stato permesso percorrere dal mattino dopo il mio arrivo. “Il y a la guerre dans la rue”; di ritorno dal mare, la mia compagna di stanza marocchina si è presentata così mentre le stringevo la mano ancora assonnata . La prima notte il caldo umido era stato duro da sopportare, avevo dormito pochissimo svegliandomi di continuo, mi terrorizzava l'idea che quella ventola rumorosa che mi ronzava sopra la testa si potesse staccare a tradimento. La serata mi aveva stordita; non tanto a livello visivo, sono arrivata col buio e la luce si è riaccesa solo una volta entrata nell'appartamento, permettendomi di esplorare con gli occhi appena qualche metro quadro di mobili brutti e pavimenti sporchi al neon. Mi avevano stordito piuttosto le voci, i clacson, i suoni della strada. Ma quale guerra civile! Mi sembrava che tutta la popolazione cairota fosse a passeggio sotto la mia stanza quella sera, bambini compresi. Come sul lungomare di un qualche posto di vacanza. Rincuorante, ma un po' troppo per iniziare. Avevo sperato di venir introdotta in maniera soft, coi suoni in moltiplicazione costante ma solo poco per volta. Ero andata a dormire presto per smorzare lo shock, una bella dormita mitiga ogni sensazione, con me ha più o meno sempre funzionato. La dormita non era stata delle migliori, l'annuncio al risveglio non esattamente un buongiorno, mi sentivo appiccicosa ma il senso di disorientamento si era effettivamente smorzato. Il programma era quello di rimettere quel poco che avevo usato per la notte in valigia ed aspettare che mi si venisse a prendere. Direzione Giza, gli uffici e l'appartamento definitivo. Non vedevo l'ora di cominciare, avevo parlato con qualche futuro collega via facebook la settimana prima, sembravano tutti entusiasti del carico di lavoro e del fatto che la boss li facesse sgobbare su cose interessanti e dietro ordini impartiti non sempre comprensibili. Le cose poi sono andate un po' diversamente, e per due giorni interi ho collezionato pochissime immagini, spaesata dalla mancanza di coordinate geografiche e di un minimo di tecnologia che mi desse una mano nel ritrovarmi. Ero da qualche parte al Cairo, di più non sapevo. Tutt'oggi faccio fatica a localizzarmi. Mi pensavo molto più vicina all'aeroporto, cosa smentita dal mio viaggio in macchina di questo pomeriggio. O forse non sono davvero poi così lontana, ma devo ancora proporzionare i miei concetti di lontananza e vicinanza alle dimensioni di una metropoli di venti milioni di persone. Credo di aver attraversato Heliopolis poco dopo aver lasciato l'appartamento, far combaciare le immagini viste sulle guide con quelle dei palazzi a ghirigori che ho scorso di fretta dal finestrino mi ha permesso di riordinare leggermente le idee; ma la geografia dei miei spostamenti mi lascia ancora molto perplessa. Che succede, quindi? Per tre giorni, almeno a me, è successo ben poco. Ho ricevuto decine di messaggi da casa dense di aggiornamenti sulle cariche della polizia e sui presidi sgomberati. Dopo settimane di proteste portate avanti dai Fratelli musulmani con due sit-in in piazza Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda, il 14 agosto il governo ha dato ordine all'esercito di procedere allo sgombero con metodi non propriamente democratici e difficilmente condivisibili. Ero al Cairo da poche ore e quei messaggi apprensivi mi raccontavano che la situazione aveva deciso di prendere una svolta definitiva proprio in quei momenti. Ponte sei ottobre, piazza al-Nahda. dovevano essere così vicini! I fatti stavano scrivendo il presente egiziano ed un giorno ne scriveranno i libri di storia. Ed io? Le telecamere di tutto il mondo erano puntate a pochi chilometri dalla mia ignota collocazione, eppure al quinto piano di un palazzone di una via non bene identificata presumibilmente vicina ad Heliopolis non arrivava niente, nemmeno il segnale tv delle reti nazionali. Nemmeno una lenta connessione internet. Ci sono ancora posti di grandi città senza televisione ed al contempo senza connessione internet? Questo quinto piano lo è. È impressionante come si possa lasciare il mondo fuori da una porta vecchia dalla serratura acciaccata. Cinquanta metri quadri di caldo appiccicoso, ventole rumorose, una lunga lista di connessioni wireless rilevate dal mio cellulare e bloccate da parole magiche a me sconosciute. Il primo giorno il contrasto tra i messaggi cupi che arrivavano da lontano e la quiete ignara che mi regnava attorno mi ha paralizzata al punto che non mi sono decisa ad uscire fino al primo capogiro da calo di zuccheri. Non mangiavo dal giorno prima in aereo. L'unico ragazzo di casa mi ha accompagnata al minimarket più vicino, e credo di aver guardato più i miei piedi che la strada durante il tragitto. Per raggiungere il minimarket bisogna percorrere la via di casa, svoltare l'angolo ed attraversare uno stradone molto largo, polveroso e dominato da qualcosa di più simile alla legge della giungla che al codice della strada. Inutile tentare di riportare l'attenzione di tutti sulle regole minime di convivenza stradale. Si potrebbe aspettare per ore, o rimanerne schiacciati. Una strada enorme e polverosa, un minimarket un po' trascurato e sfornito di qualunque tipo di scritta famigliare (quando ci si dà poco tempo per acchiappare qualcosa al volo, questo è un dettaglio non di poco conto), una proprietaria molto coperta e dallo sguardo severo. Di nuovo la strada larga e polverosa, poi la via di casa (mi era sembrata così ampia la sera prima, mentre la sbirciavo dal terrazzo! Sarà larga appena quanto il marciapiede dello stradone largo e polveroso). Poi, poco prima di imboccare le scale, il piano terra dell'edificio di casa; quel giorno aveva le imposte blu spalancate che lasciavano sbirciare dentro a due stanze popolate da tante donne e bambini, tutti occupati attorno ad un tavolo. C'erano disegni incollati sui muri e quelle collanine che si fanno con le stelle filanti che attraversavano la stanza da un angolo all'altro. Forse una scuola materna, o un punto di aggregazione per famiglie.

Questo era stato il mio orizzonte visivo per almeno 24 ore. L'ho allargato di qualche centinaio di metri la mattina dopo, alla ricerca di un supermercato un po' più fornito. Il pomeriggio prima la polizia aveva sgomberato i due sit in della Fratellanza musulmana con quella mattanza a suon di spari che ha fatto inorridire la sensibilità di tutti gli spettatori del mondo, o quanto meno d'Europa. Il governo aveva confermato all'incirca 500 morti, i Fratelli Musulmani sostenevano il numero superasse i 4000. La mattina dopo i negozi avevano riaperto come in un giorno qualsiasi. Trovavo rincuorante che così tanta gente facesse cose normali, scegliesse la frutta al supermercato, ricaricasse il cellulare ed uscisse a fare compere con le figlie. Da quando sono arrivata, la gente qui ha vissuto la mattina e si è ammazzata dopo il primo pomeriggio. A questa scansione si sono adattate le nostre giornate, qualche commissione sbrigativa sotto il sol leone e ritirata in casa il pomeriggio, spostandosi non oltre un cafè poco distante. La guerra civile non ci ha toccati oltre a questo. 



Oggi, però, sono uscita dall'isolato. Sono venuti a prendermi, pareva che finalmente saremmo riusciti a raggiungere la sede della società per cui dovrei lavorare. Si trova a Giza, ma abbastanza lontana dal protettorato mandato in fiamme ieri e dall'università dove si concentrano gli assembramenti. Non sono qui da molto, eppure mi era parso abbastanza chiaro che ci si dovesse spostare in mattinata, evitando così di attraversare la città dopo la ripresa delle proteste. I miei accompagnatori non la pensavano allo stesso modo, la flemma egiziana li ha portati sorridenti sotto casa ben dopo l'una. E' venerdì. I Fratelli musulmani avevano annunciato grosse proteste al termine della preghiera di mezzogiorno. Avventurarmi dall'altro lato della città a quell'ora mi è sembrata una follia, ma ho deciso di fidarmi del buon senso dei miei beniamini. Mustafa aspettava in macchina sudato, ciccione e sornione, mentre Galad trascinava le mie valigie, ancora più sudato. Ho smesso di insistere nel portarmi da sola i bagagli dopo che hanno voluto farmi credere che la cosa li offendesse. Non penso sia così, ma tanto di guadagnato.

Ho quindi avuto la conferma che la strada larga e polverosa che si attraversa per andare a fare la spesa ha un proseguo che sembra non avere fine. Le file di palazzi tutti uguali si scompaginano da una parte e dall'altra iniziando ad alternarsi con le costruzioni più inaspettate. Gli occhi cominciano a fare un bagno di imprevisti visivi simile a nulla che avessi mai visto prima. Il cielo limpidissimo dietro, e queste forme talmente alte ed imponenti e nitide sullo sfondo blu da sembrare giganteschi ritagli di cartoncino. Moschee di fianco ad edifici slanciati e specchiati della finanza, poi un giardino con le palme ed un palazzone popolare ed ancora un incrocio, un cinema, un'imponente scuola coranica, una chiesa moderna. Mi sono sentita una bambina. Non so, a volte mi vengono pensieri cupi e un po' cretini del tipo che forse sto esaurendo la mia personale dose di stupore spendibile di fronte alle cose nuove nel corso della vita. Ogni individuo deve possederne una scorta; se ne abusa da bambini non sapendo che andrà ad esaurimento, poi da adolescenti si decide di fingere di non averne nemmeno un po' perché tutto fa schifo per forza, poi la si usa con parsimonia per qualche anno, poi le briciole, poi finisce e tutto sembra già visto e già fatto e già sentito. Ammetto di fare pensieri simili talvolta ed ammetto di aver pensato abbastanza spesso di recente che la mia dose di stupore stesse volgendo al termine, cosa che mi ha spesso rattristata. No! Oggi mi sono sentita autenticamente assolutamente stupita senza mezzi termini. Lo stradone largo e polveroso si è gettato in un incrocio per farci riversare in un susseguirsi di viali ariosi contornati da edifici che sembrano scritti in alfabeto arabo, forme orientaleggianti con archetti e punte. Lì ho riconosciuto la presunta Heliopolis. L'orientamento non è mai stato il mio forte e le cartine geografiche che mi disegno in testa hanno spesso una morfologia fantasiosa. Galad guida come un pazzo e sembra non curarsi del fatto che la sua macchina sia prossima allo sfascio. Abbiamo percorso chilometri con uno specchietto laterale appeso soltanto ad un filo che sbatteva contro il finestrino, e con un tubo a penzoloni che grattava sulla strada. Una volta imboccata una strada a molte corsie che si defila dal centro tutti hanno cominciato a guidare velocissimi, superandosi su qualunque lato e sfiorandosi come avevo visto fare solo in qualche brutto film di inseguimenti. Onestamente, non pensavo si potesse uscire vivi da un viaggio simile. Spesso mi figuro le macchine come scatolette di latta prossime all'accartocciamento, e sono davvero poche le persone con le quali mi fido a viaggiare anche ad occhi chiusi. Posso affermare con sicurezza che Galad non rientra tra questi, ma le risate dei due e la voce mielosa di una cantante locale che usciva dalle casse e la naturalezza con cui tutti di continuo sfioravano il tamponamento e tutte quelle cose mai viste che passavano veloci attraverso il finestrino, tutto questo assieme creava uno scenario surreale che aveva dello straordinario, ed era a suo modo piacevole.

La strada correva ampia e veloce tra file di palazzi popolari bucherellati da finestrelle minuscole e tutte uguali. Costruzioni fatiscenti affiancavano palazzi in costruzione, c'era una quantità incredibile di cantieri, quasi l'edilizia dovesse correre per tenere il passo della crescita demografica. Quanta gente si stiperà in quell'ammasso di loculi? Quante vite e teste ed occhi si sovrapporranno per un'altezza di venti piani? Ai palazzoni popolari si alternava di tanto in tanto qualche complesso residenziale più elegante. Ce n'era uno che aveva lo stesso colore della sabbia, era nuovo di zecca e vedeva trionfare nello spiazzo di fronte una piccola moschea fresca di costruzione. Sì, la sabbia. Allontanandosi dal centro urbano tutto si è colorato di giallo. Quel colosso di loculi si stava facendo strada nel deserto e gli conviveva fianco a fianco. Galad faceva zig zag tra le macchine con una giuda impaziente ed i colori di terra e cielo erano intensi come in una scatola di pastelli in gradazione. È durante questo viaggio in macchina che ho potuto fare la conoscenza del gigantesco apparato militare del paese. Trovavo strano non aver visto fino a quel momento presidi, né uomini in divisa. L'aeroporto mi aveva sorpresa per la totale assenza di controlli. Ma eccoli! Noi scorrevamo veloci, ma nella direzione opposta una coda si era creata ad un posto di blocco delle forze di sicurezza. Un carrarmato giallo ocra bloccava il passaggio. Tutto aveva le tinte del deserto. Una decina di militari in elmetto fermava le macchine e controllava i documenti dei passeggeri. Poi ho chiesto a Galad cosa fosse quel gigantesco complesso recintato che avevamo appena superato. Un centro di addestramento militare, mi ha detto. La mia attenzione è aumentata e da quel momento ho contato un buon numero di campus dell'esercito, zone di addestramento, edifici legati alle forze armate. Davanti ad uno dei colossali cancelli troneggiava la statua di un soldato col fucile puntato verso il cielo. L'edilizia residenziale si faceva sempre più povera. Ad un tratto ci siamo trovati a rallentare in colonna. La strada per Giza era bloccata, ci rimandavano indietro. “This is bad luck”, ha detto Galad. No, per dio, questa non è sfortuna, se solo fossimo partiti un po' prima! Era chiaro che avrebbero chiuso i collegamenti con l'inizio delle proteste. Ci hanno fatto fare inversione ed abbiamo percorso un pezzo in contromano per girarci. Accanto al presidio ho visto il mio primo scorcio reale di povertà egiziana. Gli edifici erano semidistrutti, la strada era un tracciato di sabbia gialla, i bambini giocavano a terra tra i cumuli di spazzatura. Un gruppetto di donne indossava il niqab, vicino a casa non avevo visto nessuna che lo portasse. Sulla via del ritorno abbiamo incrociato i soldati che controllavano i documenti. Ci hanno guardati e lasciati passare senza domande. Erano tutti giovanissimi, forse appena ventenni. Abbiamo percorso i trenta minuti di strada veloce che ci separa da casa. Ero arrabbiata e tentata dal chiedere di venir lasciata in uno di quegli alberghi vicino all'aeroporto, poi mi sarei arrangiata da sola col taxi a raggiungere Giza. Non l'ho fatto e abbiamo viaggiato in silenzio con Mustafa che suonava una chitarra immaginaria sulle note di un pezzo di rock arabo.