martedì 27 agosto 2013

brevi riflessioni senza conclusioni

Durante il weekend sono stata a Dokki a passare la giornata con una coppia di ragazzi italiani che vivono qui da quasi un anno. Sono arrivati al Cairo un po' per sbaglio, ma poi si sono trovati bene. La zona in cui abitano è così diversa da questo deserto, lì la città si riappropria del terreno con asfalto, palazzoni, movimenti veloci. La sera abbiamo cenato coi vicini di casa. Tra loro c'era un freelance brasiliano che ci ha raccontato delle sue sette ore di detenzione nelle carceri egiziane. La settimana prima era stato arrestato ad un check point mentre viaggiava su un taxi, di ritorno dal lavoro. Il suo è uno dei tanti episodi che vedono coinvolti i giornalisti occidentali che coprono la città, recentemente vittime di arresti, minacce e sequestro di materiale ed apparecchiatura.
Ieri su The Guardian ho letto un articolo di Rachel Shabi che ho trovato ben scritto e che mi è sembrato saper rendere la complessità dell'Egitto attuale. Ecco il link: http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/aug/25/egypt-coup-muslim-brotherhood .
Una volta qui, gli interrogativi posti da lontano non trovano risposta ma si moltiplicano, ed ora mi riesce difficile rispondere senza vacillare anche alla domanda apparentemente più scontata; è questa l'unica cosa che mi sento di dire senza esitazioni dopo due settimane. L'accusa principale mossa dai media nazionali a quelli internazionali (e la ragione per la quale gli stranieri hanno iniziato ad essere guardati con un certo sospetto ed i giornalisti a finire dietro le sbarre) è che questi abbiano sposato la causa dei Fratelli musulmani arrivando ad appoggiarli. Conosco bene le ragioni di testa e di cuore che potrebbero portare qualunque giornalista occidentale a sposare la causa dei diritti e della libertà di espressione. Sono le stesse ragioni che li avranno condotti a raccontare all'Occidente le violenze perpetrate dagli autori del coup. Ma la situazione è effettivamente molto più complessa di quanto si possa rendere in qualche riga di sensazionalismo mediatico.
La televisione di stato egiziana sta facendo una sorta di lavaggio del cervello ai suoi utenti; in alto a sinistra sullo schermo campeggia un'unica scritta in inglese, costante: Egypt is fighting terrorism. Ma non si lava il cervello ad una nazione in pochi giorni. Ho visto ben due famiglie, durante i miei rari spostamenti in macchina, farsi fotografare sorridenti davanti al carrarmato, i bambini piccoli tra le braccia dei soldati. Non ho parlato con una singola persona, indipendentemente dall'estrazione sociale e dall'età, che si sia mostrata compassionevole con la causa della Fratellanza o perplessa nei confronti dell'atto di forza dell'esercito.
Più di tutto, quello che scuote la mia sensibilità europea e mi fa sentire pure colpevole è il fatto di non riuscire a ritenere nessuna di queste persone una cattiva persona. Mi mancano le coordinate e più ci penso e più mi confondo.



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