lunedì 19 agosto 2013

il mio 14 agosto, o come tutto succedeva attorno mentre a me non succedeva nulla

APPUNTI DEL 16 AGOSTO
Dopo tre giorni al Cairo, oggi finalmente l'ho visto, il Cairo. Per poco, è passato veloce dietro ai finestrini mentre lo abbiamo attraversato su un macchina scalcagnata e rumorosa. È stato comunque molto di più del centinaio di metri di strada che mi era stato permesso percorrere dal mattino dopo il mio arrivo. “Il y a la guerre dans la rue”; di ritorno dal mare, la mia compagna di stanza marocchina si è presentata così mentre le stringevo la mano ancora assonnata . La prima notte il caldo umido era stato duro da sopportare, avevo dormito pochissimo svegliandomi di continuo, mi terrorizzava l'idea che quella ventola rumorosa che mi ronzava sopra la testa si potesse staccare a tradimento. La serata mi aveva stordita; non tanto a livello visivo, sono arrivata col buio e la luce si è riaccesa solo una volta entrata nell'appartamento, permettendomi di esplorare con gli occhi appena qualche metro quadro di mobili brutti e pavimenti sporchi al neon. Mi avevano stordito piuttosto le voci, i clacson, i suoni della strada. Ma quale guerra civile! Mi sembrava che tutta la popolazione cairota fosse a passeggio sotto la mia stanza quella sera, bambini compresi. Come sul lungomare di un qualche posto di vacanza. Rincuorante, ma un po' troppo per iniziare. Avevo sperato di venir introdotta in maniera soft, coi suoni in moltiplicazione costante ma solo poco per volta. Ero andata a dormire presto per smorzare lo shock, una bella dormita mitiga ogni sensazione, con me ha più o meno sempre funzionato. La dormita non era stata delle migliori, l'annuncio al risveglio non esattamente un buongiorno, mi sentivo appiccicosa ma il senso di disorientamento si era effettivamente smorzato. Il programma era quello di rimettere quel poco che avevo usato per la notte in valigia ed aspettare che mi si venisse a prendere. Direzione Giza, gli uffici e l'appartamento definitivo. Non vedevo l'ora di cominciare, avevo parlato con qualche futuro collega via facebook la settimana prima, sembravano tutti entusiasti del carico di lavoro e del fatto che la boss li facesse sgobbare su cose interessanti e dietro ordini impartiti non sempre comprensibili. Le cose poi sono andate un po' diversamente, e per due giorni interi ho collezionato pochissime immagini, spaesata dalla mancanza di coordinate geografiche e di un minimo di tecnologia che mi desse una mano nel ritrovarmi. Ero da qualche parte al Cairo, di più non sapevo. Tutt'oggi faccio fatica a localizzarmi. Mi pensavo molto più vicina all'aeroporto, cosa smentita dal mio viaggio in macchina di questo pomeriggio. O forse non sono davvero poi così lontana, ma devo ancora proporzionare i miei concetti di lontananza e vicinanza alle dimensioni di una metropoli di venti milioni di persone. Credo di aver attraversato Heliopolis poco dopo aver lasciato l'appartamento, far combaciare le immagini viste sulle guide con quelle dei palazzi a ghirigori che ho scorso di fretta dal finestrino mi ha permesso di riordinare leggermente le idee; ma la geografia dei miei spostamenti mi lascia ancora molto perplessa. Che succede, quindi? Per tre giorni, almeno a me, è successo ben poco. Ho ricevuto decine di messaggi da casa dense di aggiornamenti sulle cariche della polizia e sui presidi sgomberati. Dopo settimane di proteste portate avanti dai Fratelli musulmani con due sit-in in piazza Rabaa al-Adawiya e piazza al-Nahda, il 14 agosto il governo ha dato ordine all'esercito di procedere allo sgombero con metodi non propriamente democratici e difficilmente condivisibili. Ero al Cairo da poche ore e quei messaggi apprensivi mi raccontavano che la situazione aveva deciso di prendere una svolta definitiva proprio in quei momenti. Ponte sei ottobre, piazza al-Nahda. dovevano essere così vicini! I fatti stavano scrivendo il presente egiziano ed un giorno ne scriveranno i libri di storia. Ed io? Le telecamere di tutto il mondo erano puntate a pochi chilometri dalla mia ignota collocazione, eppure al quinto piano di un palazzone di una via non bene identificata presumibilmente vicina ad Heliopolis non arrivava niente, nemmeno il segnale tv delle reti nazionali. Nemmeno una lenta connessione internet. Ci sono ancora posti di grandi città senza televisione ed al contempo senza connessione internet? Questo quinto piano lo è. È impressionante come si possa lasciare il mondo fuori da una porta vecchia dalla serratura acciaccata. Cinquanta metri quadri di caldo appiccicoso, ventole rumorose, una lunga lista di connessioni wireless rilevate dal mio cellulare e bloccate da parole magiche a me sconosciute. Il primo giorno il contrasto tra i messaggi cupi che arrivavano da lontano e la quiete ignara che mi regnava attorno mi ha paralizzata al punto che non mi sono decisa ad uscire fino al primo capogiro da calo di zuccheri. Non mangiavo dal giorno prima in aereo. L'unico ragazzo di casa mi ha accompagnata al minimarket più vicino, e credo di aver guardato più i miei piedi che la strada durante il tragitto. Per raggiungere il minimarket bisogna percorrere la via di casa, svoltare l'angolo ed attraversare uno stradone molto largo, polveroso e dominato da qualcosa di più simile alla legge della giungla che al codice della strada. Inutile tentare di riportare l'attenzione di tutti sulle regole minime di convivenza stradale. Si potrebbe aspettare per ore, o rimanerne schiacciati. Una strada enorme e polverosa, un minimarket un po' trascurato e sfornito di qualunque tipo di scritta famigliare (quando ci si dà poco tempo per acchiappare qualcosa al volo, questo è un dettaglio non di poco conto), una proprietaria molto coperta e dallo sguardo severo. Di nuovo la strada larga e polverosa, poi la via di casa (mi era sembrata così ampia la sera prima, mentre la sbirciavo dal terrazzo! Sarà larga appena quanto il marciapiede dello stradone largo e polveroso). Poi, poco prima di imboccare le scale, il piano terra dell'edificio di casa; quel giorno aveva le imposte blu spalancate che lasciavano sbirciare dentro a due stanze popolate da tante donne e bambini, tutti occupati attorno ad un tavolo. C'erano disegni incollati sui muri e quelle collanine che si fanno con le stelle filanti che attraversavano la stanza da un angolo all'altro. Forse una scuola materna, o un punto di aggregazione per famiglie.

Questo era stato il mio orizzonte visivo per almeno 24 ore. L'ho allargato di qualche centinaio di metri la mattina dopo, alla ricerca di un supermercato un po' più fornito. Il pomeriggio prima la polizia aveva sgomberato i due sit in della Fratellanza musulmana con quella mattanza a suon di spari che ha fatto inorridire la sensibilità di tutti gli spettatori del mondo, o quanto meno d'Europa. Il governo aveva confermato all'incirca 500 morti, i Fratelli Musulmani sostenevano il numero superasse i 4000. La mattina dopo i negozi avevano riaperto come in un giorno qualsiasi. Trovavo rincuorante che così tanta gente facesse cose normali, scegliesse la frutta al supermercato, ricaricasse il cellulare ed uscisse a fare compere con le figlie. Da quando sono arrivata, la gente qui ha vissuto la mattina e si è ammazzata dopo il primo pomeriggio. A questa scansione si sono adattate le nostre giornate, qualche commissione sbrigativa sotto il sol leone e ritirata in casa il pomeriggio, spostandosi non oltre un cafè poco distante. La guerra civile non ci ha toccati oltre a questo. 



Oggi, però, sono uscita dall'isolato. Sono venuti a prendermi, pareva che finalmente saremmo riusciti a raggiungere la sede della società per cui dovrei lavorare. Si trova a Giza, ma abbastanza lontana dal protettorato mandato in fiamme ieri e dall'università dove si concentrano gli assembramenti. Non sono qui da molto, eppure mi era parso abbastanza chiaro che ci si dovesse spostare in mattinata, evitando così di attraversare la città dopo la ripresa delle proteste. I miei accompagnatori non la pensavano allo stesso modo, la flemma egiziana li ha portati sorridenti sotto casa ben dopo l'una. E' venerdì. I Fratelli musulmani avevano annunciato grosse proteste al termine della preghiera di mezzogiorno. Avventurarmi dall'altro lato della città a quell'ora mi è sembrata una follia, ma ho deciso di fidarmi del buon senso dei miei beniamini. Mustafa aspettava in macchina sudato, ciccione e sornione, mentre Galad trascinava le mie valigie, ancora più sudato. Ho smesso di insistere nel portarmi da sola i bagagli dopo che hanno voluto farmi credere che la cosa li offendesse. Non penso sia così, ma tanto di guadagnato.

Ho quindi avuto la conferma che la strada larga e polverosa che si attraversa per andare a fare la spesa ha un proseguo che sembra non avere fine. Le file di palazzi tutti uguali si scompaginano da una parte e dall'altra iniziando ad alternarsi con le costruzioni più inaspettate. Gli occhi cominciano a fare un bagno di imprevisti visivi simile a nulla che avessi mai visto prima. Il cielo limpidissimo dietro, e queste forme talmente alte ed imponenti e nitide sullo sfondo blu da sembrare giganteschi ritagli di cartoncino. Moschee di fianco ad edifici slanciati e specchiati della finanza, poi un giardino con le palme ed un palazzone popolare ed ancora un incrocio, un cinema, un'imponente scuola coranica, una chiesa moderna. Mi sono sentita una bambina. Non so, a volte mi vengono pensieri cupi e un po' cretini del tipo che forse sto esaurendo la mia personale dose di stupore spendibile di fronte alle cose nuove nel corso della vita. Ogni individuo deve possederne una scorta; se ne abusa da bambini non sapendo che andrà ad esaurimento, poi da adolescenti si decide di fingere di non averne nemmeno un po' perché tutto fa schifo per forza, poi la si usa con parsimonia per qualche anno, poi le briciole, poi finisce e tutto sembra già visto e già fatto e già sentito. Ammetto di fare pensieri simili talvolta ed ammetto di aver pensato abbastanza spesso di recente che la mia dose di stupore stesse volgendo al termine, cosa che mi ha spesso rattristata. No! Oggi mi sono sentita autenticamente assolutamente stupita senza mezzi termini. Lo stradone largo e polveroso si è gettato in un incrocio per farci riversare in un susseguirsi di viali ariosi contornati da edifici che sembrano scritti in alfabeto arabo, forme orientaleggianti con archetti e punte. Lì ho riconosciuto la presunta Heliopolis. L'orientamento non è mai stato il mio forte e le cartine geografiche che mi disegno in testa hanno spesso una morfologia fantasiosa. Galad guida come un pazzo e sembra non curarsi del fatto che la sua macchina sia prossima allo sfascio. Abbiamo percorso chilometri con uno specchietto laterale appeso soltanto ad un filo che sbatteva contro il finestrino, e con un tubo a penzoloni che grattava sulla strada. Una volta imboccata una strada a molte corsie che si defila dal centro tutti hanno cominciato a guidare velocissimi, superandosi su qualunque lato e sfiorandosi come avevo visto fare solo in qualche brutto film di inseguimenti. Onestamente, non pensavo si potesse uscire vivi da un viaggio simile. Spesso mi figuro le macchine come scatolette di latta prossime all'accartocciamento, e sono davvero poche le persone con le quali mi fido a viaggiare anche ad occhi chiusi. Posso affermare con sicurezza che Galad non rientra tra questi, ma le risate dei due e la voce mielosa di una cantante locale che usciva dalle casse e la naturalezza con cui tutti di continuo sfioravano il tamponamento e tutte quelle cose mai viste che passavano veloci attraverso il finestrino, tutto questo assieme creava uno scenario surreale che aveva dello straordinario, ed era a suo modo piacevole.

La strada correva ampia e veloce tra file di palazzi popolari bucherellati da finestrelle minuscole e tutte uguali. Costruzioni fatiscenti affiancavano palazzi in costruzione, c'era una quantità incredibile di cantieri, quasi l'edilizia dovesse correre per tenere il passo della crescita demografica. Quanta gente si stiperà in quell'ammasso di loculi? Quante vite e teste ed occhi si sovrapporranno per un'altezza di venti piani? Ai palazzoni popolari si alternava di tanto in tanto qualche complesso residenziale più elegante. Ce n'era uno che aveva lo stesso colore della sabbia, era nuovo di zecca e vedeva trionfare nello spiazzo di fronte una piccola moschea fresca di costruzione. Sì, la sabbia. Allontanandosi dal centro urbano tutto si è colorato di giallo. Quel colosso di loculi si stava facendo strada nel deserto e gli conviveva fianco a fianco. Galad faceva zig zag tra le macchine con una giuda impaziente ed i colori di terra e cielo erano intensi come in una scatola di pastelli in gradazione. È durante questo viaggio in macchina che ho potuto fare la conoscenza del gigantesco apparato militare del paese. Trovavo strano non aver visto fino a quel momento presidi, né uomini in divisa. L'aeroporto mi aveva sorpresa per la totale assenza di controlli. Ma eccoli! Noi scorrevamo veloci, ma nella direzione opposta una coda si era creata ad un posto di blocco delle forze di sicurezza. Un carrarmato giallo ocra bloccava il passaggio. Tutto aveva le tinte del deserto. Una decina di militari in elmetto fermava le macchine e controllava i documenti dei passeggeri. Poi ho chiesto a Galad cosa fosse quel gigantesco complesso recintato che avevamo appena superato. Un centro di addestramento militare, mi ha detto. La mia attenzione è aumentata e da quel momento ho contato un buon numero di campus dell'esercito, zone di addestramento, edifici legati alle forze armate. Davanti ad uno dei colossali cancelli troneggiava la statua di un soldato col fucile puntato verso il cielo. L'edilizia residenziale si faceva sempre più povera. Ad un tratto ci siamo trovati a rallentare in colonna. La strada per Giza era bloccata, ci rimandavano indietro. “This is bad luck”, ha detto Galad. No, per dio, questa non è sfortuna, se solo fossimo partiti un po' prima! Era chiaro che avrebbero chiuso i collegamenti con l'inizio delle proteste. Ci hanno fatto fare inversione ed abbiamo percorso un pezzo in contromano per girarci. Accanto al presidio ho visto il mio primo scorcio reale di povertà egiziana. Gli edifici erano semidistrutti, la strada era un tracciato di sabbia gialla, i bambini giocavano a terra tra i cumuli di spazzatura. Un gruppetto di donne indossava il niqab, vicino a casa non avevo visto nessuna che lo portasse. Sulla via del ritorno abbiamo incrociato i soldati che controllavano i documenti. Ci hanno guardati e lasciati passare senza domande. Erano tutti giovanissimi, forse appena ventenni. Abbiamo percorso i trenta minuti di strada veloce che ci separa da casa. Ero arrabbiata e tentata dal chiedere di venir lasciata in uno di quegli alberghi vicino all'aeroporto, poi mi sarei arrangiata da sola col taxi a raggiungere Giza. Non l'ho fatto e abbiamo viaggiato in silenzio con Mustafa che suonava una chitarra immaginaria sulle note di un pezzo di rock arabo.







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